Se parlassi le lingue
degli uomini e degli angeli,
ma non avessi la carità,
sarei come bronzo
che rimbomba o come
cimbalo che strepita.
E se avessi il dono della profezia,
conoscessi tutti i misteri
e avessi tutta la conoscenza,
se possedessi tanta fede
da trasportare le montagne,
ma non avessi la carità,
non sarei nulla.
E se anche dessi
in cibo tutti i miei beni
e consegnassi il mio corpo
per averne vanto,
ma non avessi la carità,
a nulla mi servirebbe.
La carità è magnanima,
benevola è la carità;
non è invidiosa,
non si vanta,
non si gonfia d’orgoglio,
non manca di rispetto,
non cerca il proprio interesse,
non si adira,
non tiene conto del male ricevuto,
non gode dell’ingiustizia,
ma si rallegra della verità.
Tutto scusa,
tutto crede,
tutto spera,
tutto sopporta.
La carità non avrà mai fine.
Le profezie scompariranno;
il dono delle lingue cesserà
e la conoscenza svanirà.
Infatti, in modo imperfetto
noi conosciamo
e in modo imperfetto
profetizziamo.
Ma quando verrà
ciò che è perfetto,
quello che è imperfetto
scomparirà.
Quand’ero bambino,
parlavo da bambino,
pensavo da bambino,
ragionavo da bambino.
Divenuto uomo, ho eliminato
ciò che è da bambino.
Adesso noi vediamo
in modo confuso,
come in uno specchio;
allora invece vedremo
faccia a faccia.
Adesso conosco in modo
imperfetto, ma allora
conoscerò perfettamente,
come anch’io sono conosciuto.
Ora dunque rimangono
queste tre cose:
la fede,
la speranza
e la carità.
Ma la più grande di tutte
è la carità!
«Va’ e anche tu fa’ così», sono le parole che Gesù annuncia al termine della parabola del buon Samaritano che io ho scelto come titolo per questa mia seconda lettera pastorale dopo tre anni di mia presenza in questa nostra amata diocesi di Alba.
La parabola, che è tratta dal Vangelo di Luca, mi è particolarmente cara e l’ho scelta come icona biblica di questa mia lettera sul tema della carità.
Ritengo che la dimensione della carità sia connaturale con la vita della Chiesa e non possa mai venire meno, del resto nella sua prima lettera l’evangelista Giovanni dice: «Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1Gv 4,8) e lo stesso Gesù afferma:.
«Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9).
La dimensione dell’amore è alla base del cammino verso la santità e molti santi della carità, fra questi i nostri patroni san Lorenzo e san Teobaldo ma anche santi più recenti, sono per tutti noi un modello di vita.
Testimoniare la carità è dunque ciò che si aspetta il mondo di oggi dalla Chiesa e da ciascun battezzato.
La carità quella vera, autentica, evangelica e non quella fatta con la semplice elemosina o un gesto di primo soccorso sociale che sovente fanno confondere la Chiesa con una Ong, come più volte ci ha ricordato proprio papa Francesco.
Intendo con questa lettera offrire alcune riflessioni a tutta la comunità diocesana per far comprendere che la carità interpella tutti indistintamente, esattamente come la missione e non può essere delegata a qualcuno, a un ufficio o a degli esperti in problemi sociali.
Chiunque si imbatte nella Chiesa, perché questa sia credibile, deve presentarsi come luogo di amore, dove si vive la carità come stile quotidiano, dove tutti si vogliono bene e quando si sbaglia, perché fragili e peccatori, si ricorre al perdono di Dio e dei fratelli per celebrare così la misericordia infinita del Padre:.
«Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).
† Marco Brunetti, vescovo
Alba, 10 agosto 2019
solennità di san Lorenzo,
diacono e martire
Gli anni di profonda crisi economica e finanziaria, che hanno investito il nostro come molti altri Paesi, in una escalation globalizzata di tantissime interconnessioni cui non eravamo affatto abituati o che abbiamo ingenuamente minimizzato, hanno portato profondi cambiamenti nelle famiglie, nei gruppi sociali, nelle comunità, nella società e nella stessa Chiesa.
Ma i primi anni del nuovo Millennio hanno trasformato questa percezione in evidenza.
Le modifiche non sono state per lo più scelte, ma quasi imposte dall’esterno. E per questo meno facili da metabolizzare, affrontare, risolvere.
Gli analisti della grande economia hanno dato le loro interpretazioni; i politici si sono cimentati in percorsi di uscita talora esageratamente dettati dal criterio della paura, talaltra affrontati con eccessivo senso del particolare quando non del privatistico; i sociologi hanno ridefinito il concetto di società liquida e traghettato nuove visioni al di là di quelle esperite nel cosiddetto secolo breve; i mass media si sono affannati a descrivere gli avvenimenti partendo soprattutto dalle frange più faticose che hanno causato – speriamo involontariamente – sentimenti e sensazioni spesso rabbuianti.
Abbiamo attraversato il deserto con la speranza di ritrovare la nostra oasi, quella da cui eravamo partiti.
[1] Is 21,11
Dimenticandoci che ogni traversata non riporta al punto di partenza in un interminabile gioco dell’oca, ma proietta verso un qualcosa di diverso, di nuovo, un territorio inesplorato perché al di là delle nostre previsioni. Forse angosciati come gli interlocutori della sentinella per il buio che continuava a protrarsi e troppo attirati dalla speranza che tutto fosse un sogno destinato a farci tornare là dove avevamo costruito i nostri granai, non abbiamo messo tutta l’attenzione possibile alla più importante interpretazione che di quella traversata potevamo e dovevamo fare. L’aurora nella quale siamo o che almeno intravvediamo oggi ci aiuta a fare un miglior discernimento. Il deserto non è solo quello dell’economia incoronata regina assoluta della vita dell’umanità, né solo quello dell’etica relegata a mero fronzolo di abbellimento esteriore, né solo quello di una politica più propensa a cercare il bene collettivo rispetto a quello comune (il primo equiparabile a una facile addizione, dove ciò che importa è che il risultato rimanga positivo a prescindere dal valore assegnato ai singoli addendi, il secondo più simile a una moltiplicazione in cui non è possibile deprezzare a zero uno dei moltiplicatori se si vuole mantenere il risultato positivo). Il deserto è antropologico e riguarda l’uomo e la sua dignità, il modo profondo di interpretarlo in rapporto alle istituzioni e alle operazioni, la possibilità di espressione di sé stesso, la sua priorità derivata non dalle capacità ma dall’origine.
All’uomo sono venute meno molte risorse di vita, di cui quelle eminentemente economiche non sono certo le sole, né le più importanti. La traversata ci ha umanamente impoveriti, obbligandoci a guardare quasi esclusivamente al portafoglio e lasciando in disparte gli altri beni preziosi che fanno della nostra una vita davvero umana, degna, vera.
Si colloca qui, almeno nel nostro Occidente, la radice principale della povertà che è prima di tutto umana e poi sicuramente economica e sociale.
È come l’aria che respiriamo.
Non si può cambiare, né emendare, si può solo venerare come un nuovo dio pagano. Invece la salvezza portata da Gesù Cristo è integrale, terrena e soprannaturale, ma questo non vuol dire che tra le due non ci sia una gerarchia finalistica.
Il fine ultimo, anche dell’organizzazione sociale, anche dell’azione caritativa, è la gloria di Dio perché il Samaritano non agisce soltanto per spirito di compassione ma per un preciso comandamento del Padre che, caricandosi del fratello e per di più di un fratello che la cultura del tempo considerava nemico, il Samaritano ha preso sul serio e messo in pratica. La carità assume senso solo se legata alla salvezza e alla verità.
Chi si impegna nell’aiuto ai poveri deve sentirsi missionario, vale a dire un annunciatore di Cristo, non dell’uomo, pur occupandosi di cose molto umane. Senza di ciò la carità non è educazione alla fede che ci salva, sia in chi la pratica, sia in chi ne riceve i benefici, ma opera di assistenza sociale, sia pure meritoria. Questi, ricordiamolo, sono i principi richiamati da papa Benedetto nella sua enciclica “Caritas in Veritate”, ai numeri 4 e 5: «La carità è amore ricevuto e donato.
4. Perché piena di verità, la carità può essere dall'uomo compresa nella sua ricchezza di valori, condivisa e comunicata.
La verità, infatti, è “lógos” che crea “diá-logos” e quindi comunicazione e comunione.
La verità, facendo uscire gli uomini dalle opinioni e dalle sensazioni soggettive, consente loro di portarsi al di là delle determinazioni culturali e storiche e di incontrarsi nella valutazione del valore e della sostanza delle cose.
La verità apre e unisce le intelligenze nel lógos dell'amore: è, questo, l'annuncio e la testimonianza cristiana della carità.
Nell'attuale contesto sociale e culturale, in cui è diffusa la tendenza a relativizzare il vero, vivere la carità nella verità porta a comprendere che l'adesione ai valori del Cristianesimo è elemento non solo utile, ma indispensabile per la costruzione di una buona società e di un vero sviluppo umano integrale.
Un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali.
In questo modo non ci sarebbe più un vero e proprio posto per Dio nel mondo.
Senza la verità, la carità viene relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni.
È esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di portata universale, nel dialogo tra i saperi e le operatività.
5. La carità è amore ricevuto e donato.
Essa è « grazia » (cháris).
La sua scaturigine è l'amore sorgivo del Padre per il Figlio, nello Spirito Santo.
È amore che dal Figlio discende su di noi.
È amore creatore, per cui noi siamo; è amore redentore, per cui siamo ricreati.
Amore rivelato e realizzato da Cristo (cfr Gv 13,1) e « riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo » (Rm 5,5).
Destinatari dell'amore di Dio, gli uomini sono costituiti soggetti di carità, chiamati a farsi essi stessi strumenti della grazia, per effondere la carità di Dio e per tessere reti di carità.
È amore che dal Figlio discende su di noi.
È amore creatore, per cui noi siamo; è amore redentore, per cui siamo ricreati.
Amore rivelato e realizzato da Cristo (cfr Gv 13,1) e “riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo” (Rm 5,5)».
Per cui «nell’attuale contesto sociale e culturale, in cui è diffusa la tendenza a relativizzare il vero, vivere la carità nella verità porta a comprendere che l’adesione ai valori del cristianesimo è elemento non solo utile, ma indispensabile per la costruzione di una buona società e di un vero sviluppo umano integrale.
Un cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali.
In questo modo non ci sarebbe più un vero e proprio posto per Dio nel mondo.
Senza la verità, la carità viene relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni». È, in sostanza, la riduzione del cristianesimo a un semplice umanesimo.
Offrendo la carità senza verità la Chiesa dà al mondo quello che già possiede.
Perché, come ebbe a dire Paolo VI, la più grande carità è portare l’annuncio di Cristo a tutti gli uomini.
Ma c’è qualcuno tra noi che, più di altri, manifesta e certifica il processo con maggiore immediatezza. Sono i fratelli e le sorelle che, spesso superficialmente, definiamo con il nome di “poveri”.
O meglio, coloro che gli studiosi dei fenomeni sociali hanno iniziato a definire “nuovi poveri”.
Certo perché se la povertà è fondamentalmente sempre descrivibile allo stesso modo, come mancanza e carenza di ciò che è necessario, i soggetti che questa carenza portano nella loro vita possono cambiare anche radicalmente.
Nelle comunità di questa terra incontriamo nuovi volti di persone che vivono l’esperienza della deprivazione delle risorse in modo inedita.
Si tratta di fratelli che mai prima erano stati costretti ad affrontare situazioni di mancanza di reddito, di carenza lavorativa, di insufficienza di risorse materiali e relazionali utili al cammino ordinario dell’esistenza. Gente comune, con normali percorsi familiari, con carriere formative talora anche intense, con progetti di vita oculati e fatti di scommesse colme di speranze possibili.
Persone con il piede pigiato sull’acceleratore della loro esistenza nel lavoro, nella vita di coppia, nella scommessa genitoriale, nell’impegno per la costruzione di un futuro credibile anche per il territorio. Per loro sono cambiate le condizioni di vita, spesso in maniera repentina e inaspettatamente. Sono volti soprattutto di giovani che, nella traversata della notte, spesso hanno anche perso il desiderio del futuro.
Li abbiamo chiamati con un termine inglese molto criptico – neet (acronimo che sta per persone non impegnate nello studio, nel lavoro e nella formazione) – che, però, afferma l’immobilità di una vita.
Sono volti di genitori in solitudine, non solo mamme ma anche padri, resi tali dal frantumarsi dell’esperienza del rapporto di coppia magari incentivata dall’inaspettata carenza di risorse. Sono volti di fratelli che, vedendo l’oscurità davanti a sé, hanno scelto di investire il poco che ancora avevano in una forma di guadagno che con troppa facilità viene pubblicizzata come panacea a quasi tutti i mali: il gioco d’azzardo. Sono volti di persone fragili nel carattere, a causa della storia personale, e resi immensamente deboli dall’oscurità della vita, fino a renderli avvinti dalle moderne forme di dipendenza da sostanze o a farli crollare negli eventi depressivi. Sono volti di anziani lasciati soli proprio nel tempo della malattia e delle nuove necessità che il protrarsi dell’età porta con sé. Sono volti di tanti fratelli provenienti da centinaia di Paesi lontani, venuti nei nostri territori in cerca di una ragione di speranza, o scappati da situazioni pesanti che noi siamo in genere molto abili a giudicare ma che saremmo meno spavaldi a sopportare. Sono volti inattesi, che non ti aspettavi e che, forse, non riusciamo ancora a ben identificare perché troppo “comuni” per la nostra immagine sedimentata di fragilità.
Abbastanza normali sono i bisogni che essi portano: lavoro, casa, salute, risorse economiche...
Ma qualcosa di diverso c’è: sono tutti modificati a causa dell’incertezza ormai radicata, del disequilibrio che il percorso nel buio ha generato, del disorientamento che il non sapere dove andare e se ci sarà una meta appetibile accresce e rende quasi strutturale. Le domande che si affacciano nella vita delle persone diventano sempre più stratificate in complessità, moltiplicate in quantità e mutate in qualità generalmente negativa.
Si tratta di elementi che hanno un grande riflesso interiore sulla persona e che, proprio per questo, pesano assai di più nella vita di ciascuno. Sembra un paradosso, ma i “nuovi poveri” sono certamente più fragili di coloro che hanno iniziato questa esperienza in passato.
E paradossali sono gli esiti che queste situazioni portano con sé: la destrutturazione personale, la ripresa di percorsi di ritorno che portano persone in passato vittime di povertà a ritrovarsi su quei sentieri ritenuti definitivamente abbandonati, la ricerca di surrogati alla speranza. Ma, soprattutto, portano alla paura e alla vergogna nel palesarsi.
Quanto senso di vergogna emerge durante i colloqui con chi si sente in qualche maniera quasi colpevole, pur non essendolo affatto.
E quella conoscenza reciproca, che in passato era stato uno dei punti di forza per i nostri piccoli centri o per le nostre città a misura d’uomo, rischia di trasformarsi in ostacolo e anticamera della separatezza.
Perché proprio qui nascono frontiere del tutto nuove che ci interpellano tutti. Parliamo dell’isolamento pur in mezzo alla crescita degli strumenti di collegamento, delle solitudini dalle molte facce, della crescita di richiesta di supporto affettivo o – al contrario – di elementi di anaffettività sempre più espressa, della ricerca spasmodica di punti di riferimento, della necessità di orientamento non solo operativo ma anche esistenziale.
Ma tutto nascosto.
Almeno fin che si può, quando ormai è troppo tardi per tutto se non per provare strade di emergenza.
E così arriva il rischio di cadere all’interno dell’esercito delle persone ufficialmente ritenute in povertà che, in Italia, ammontano ad alcuni milioni.
Considerati così non sarebbero altro che “indicatori sociologici”, una sorta di piccolo fenomeno che rappresenta statisticamente la situazione più generale.
Questo perché i poveri sono anzitutto e soprattutto persone e, dunque, non possono venire trattati come numeri.
Ma anche perché, in una visione di fede, i poveri sono davvero molto di più.
Per lui al centro vanno posti gli “ultimi”, non per una formale cortesia, ma perché sono essi a esprimere in maniera più completa la sua stessa presenza.
Di un Dio che si fa carne nella logica dell’”abbassamento” e della “spoliazione” [2] e che in qualche maniera si identifica con gli ultimi della terra o, meglio, con coloro che consideriamo ultimi: «Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» [3].
Avrebbe potuto dire che ciò che viene fatto a uno dei fratelli più piccoli è “come se” venisse fatto a lui, e forse il lemma letterario non sarebbe cambiato di molto.
[2] Filippesi 2
[3] Mt 25,37-40
Ma ha scelto un’altra formulazione per indurci a riflettere proprio sul primato che egli affida a quanti sono trattati come “scarto”.
Certo, gli ultimi sono davvero i migliori rappresentanti del Signore sulle strade della storia. Sono coloro che costantemente ci ricordano le beatitudini del regno dove i poveri, anche quelli materiali sembra specificare san Luca nella sua versione, sono ritenuti “beati”.
E in questo ricordo ci portano a riconoscere il vero valore delle cose, che sempre devono essere messe in subordine a ciò che davvero conta: Dio stesso.
Ed è forse per questo che un po’ ci scomodano.
Non tanto per il fatto che la loro indigenza mette in crisi la nostra opulenza, quanto perché la loro presenza fa da specchio alla nostra povertà e alle nostre fragilità, quelle profonde.
Accogliere il povero significa accettare il limite della nostra vita, il fatto di essere anche noi nudi davanti alla nostra esistenza e inevitabilmente mancanti davanti alla grandezza del disegno di Dio su di noi. Nei poveri vediamo quello che siamo.
Ma scopriamo anche l’azione misericordiosa di Dio che prende su di sé questa povertà, fino a farla accedere alla grandezza del Regno dove a contare non è ciò che si ha ma come si è. I poveri possono mettere in crisi le nostre certezze, ma anche il nostro modo di accogliere quanto ci viene da Dio.
Forse un po’ meno nel ricco nord del mondo, dove anche i poveri sono spesso tristi, arrabbiati, infastiditi, ma in molte parti del pianeta la gioiosità degli ultimi è un chiaro richiamo all’anima sonnacchiosa di chi pensa di stare bene rispetto al valore di quanto è in noi. La figura del povero Lazzaro e del ricco comunemente chiamato “epulone” – come era definito ciascuno dei membri del collegio sacerdotale che, nella Roma antica, provvedeva alla celebrazione di un solenne banchetto commemorativo della fondazione del tempio di Giove Capitolino – nella parabola raccontata solo da Luca [4], ci richiama a una questione decisiva per la nostra vita.
[4] Lc 16,19-31
L’“eredità” per cui Gesù ha consegnato la sua stessa esistenza è disponibile a chi capisce la lezione della povertà, ovvero a chi ha coscienza della propria inadeguatezza, che solo in Dio trova pieno compimento e che ci avvicina al Signore. I poveri sono coloro che ci ricordano che tutti siamo poveri, anche quando non siamo disposti ad ammetterlo.
I poveri sono coloro che ci interpellano rispetto alla verità della nostra fede e alla fedeltà nella sequela del Maestro.
Non sono gli sfortunati da compatire – non nel senso biblico del termine ma in quello buonistico usualmente conosciuto –, o gli infelici da beneficare, buttando loro le briciole cadute dalle nostre mense, o gli sventurati, che nulla meritano, ma a cui la nostra grande bontà sa volgere lo sguardo con una solidarietà fatta solo di buoni sentimenti e piena di germi di inopportuna delega.
Tutto ciò che siamo e che abbiamo non ci appartiene: è dono venuto da Dio e consegnato nelle nostre mani di amministratori, buoni o scaltri o infedeli.
Un dono gratuito ma non esente da contraccambio, perché strumento che instaura una relazione interpersonale tra il donatore e il destinatario. La relazione, per essere vera, ha sempre bisogno di generare un feed back, una risposta.
Che Dio ci invita a dare fin dal primo momento della nostra esistenza, qui nella storia, molto prima del giorno del nostro rientro definitivo nella gloria della Trinità beata.
E siccome la nostra umanità è legata dai contorni dello spazio e del tempo, quella restituzione deve avere una dimensione storica, fatta di gesti e di sentimenti, di azioni e di decisioni, di concretezza e di operosità. Così il povero diventa lo strumento attraverso il quale possiamo, con sicurezza, iniziare a rendere a Dio il frutto della nostra fede.
La condivisione con i più poveri, che troppo spesso interpretiamo come atto gentile e generoso della nostra magnanimità, non è una “opzione morale” che migliora la nostra vita, una sorta di cura estetica che ingentilisce l’animo umano e rafforza l’immagine corretta del discepolo di Gesù. È un grande, profondo, forte, deciso “atto di giustizia”.
Non tanto sociale – ma lo sarebbe di sicuro se fosse vissuta così – quanto vocazionale. “Giusto” nei testi della Scrittura non è solamente l’onesto, il rispettoso, il veritiero ma è chi cammina in perfetta conformità al disegno di Dio, l’esatto contrario di ciò che il male è e produce.
Il povero, dunque, è per noi strumento verso la giustizia, strada per il compimento completo del progetto di Dio su ciascuno, strada di santità.
Per questo per un vero cristiano il povero è «il primo dopo l’Unico» [5] sempre e senza esitazioni, il povero è il grande «signore e maestro» [6], il «passaporto per il Paradiso» [7].
[5] Tullio Goffi, Il povero dopo l’Unico, I volti storici del povero, Nuovi Saggi, 46, Queriniana Ed. Brescia.
[6] Aforisma attribuito a san Vincenzo de Paoli.
[7] Francesco, Angelus, 19 novembre 2017, prima Giornata mondiale dei poveri.
2.1 La parabola di Luca
25 «Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: “Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”.
26 Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?”.
27 Costui rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”.
28 Gli disse: “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai”.
29 Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è mio prossimo?”.
30 Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto.
31 Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre.
32 Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre.
33 Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione.
34 Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui.
35 Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”.
36 Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”.
37 Quello rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”.
Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa’ così”»
(Lc 10,25-37).Prossimità che è un “modo di essere” della vita credente e non una cornice dentro la quale dipingere ciascuno il proprio quadro.
La preoccupazione che dovrebbe muoverci è quella di “farci” il più vicino possibile all’atro, specialmente se è al fondo dell’elenco di coloro che hanno preminenza.
Cosa vera già ai tempi di Gesù se proprio su questo tema ha speso una delle pagine più profonde l’evangelista Luca nella parabola del buon Samaritano.
Cosa attualissima anche oggi quando sia il sentire comune, sia le opinioni considerate autorevoli solo perché espresse davanti a una telecamera accesa, come pure l’orientamento di alcune leggi passate e recenti, ci inducono a categorizzare l’altro, redigendo una sorta di “elenco del prossimo meritevole”.
Farsi vicini sì, ma a condizione che l’altro sia una “persona perbene”, uno dei nostri, uno che si dà da fare, uno che sa dire “grazie”, uno che non disturba oltre, uno che sollecita le corde emotive del mio cuore.
In sostanza, uno che mi va a genio. Così facendo, come tante volte è riportato dalla Bibbia, anche noi non riconosciamo che Dio sta camminando al nostro fianco, troppo occupati a stare con noi come Epulone con i suoi banchetti.
«Mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito.
Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene.
Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» [8].
[8] Rm 5,6-8
Come ogni chiamata, anche questa prevede due possibili risposte: sì oppure no.
E nessuno può esimersi.
Anche se cambia lato della strada su cui cammina.
Non c’è via di mezzo: o rimaniamo sulla considerazione dei meriti o accettiamo di “accogliere” la proposta che Dio ci offre nel momento meno opportuno, nel tempo meno indicato, nelle modalità meno in sintonia con noi.
Chi è il vero povero nella parabola di Luca? Siamo proprio sicuri che si tratti del “malcapitato” preso a bersaglio dai briganti mentre scendeva da Gerusalemme a Gerico? Non sono, piuttosto, il sacerdote o il levita preoccupati delle formalità o degli affari religiosi di massima importanza più che dell’immagine del loro Signore implorante accoglienza, tempo, dedizione, risorse? O non è davvero povero – ma nel senso di altra spiritualità, così come definito nel discorso della Montagna raccontato dall’evangelista Matteo – quel Samaritano scomunicato che esercita la propria responsabilità e giustizia accettando di realizzare il disegno provvidente di Dio, in quel momento steso sul selciato di una strada inospitale?
Deriva da due vocaboli latini che significano “abile a dare risposta”.
La prossimità è esercizio di tale abilità.
Farsi vicini è rendersi capaci di rispondere alla chiamata di Dio a essere “giusti”, a immagine e in somiglianza del nostro Creatore. Il Samaritano è giusto tra le nazioni: non ebreo, non religioso, non un volontario.
Non era nulla, ma è stato tutto.
Tale abilità nella prossimità è uno dei principali compiti educativi della vita credente, un orizzonte e un percorso che tutti siamo chiamati ad attuare. Tutti, senza eccezione.
Perché non ci sono cristiani delegati a farsi prossimo mentre la più parte ne è esonerata.
Una comunità ricca di gruppi di prossimità in cui, però, solo quelle realtà si sforzano di farsi prossimo non è comunità alla sequela.
Non basta pensare che sia sufficiente fare la strada da Gerusalemme a Gerico in compagnia del Samaritano per essere della stessa stoffa del Samaritano. Se fossimo stati noi, allora, su quella strada che cosa avremmo fatto? Forse, istruiti dal modo di fare sempre più utilizzato oggi, non saremmo formalmente passati sull’altro lato della strada.
Però avremmo preso il telefonino dalla tasca e avremmo composto il numero del Servizio sociale, o della Caritas, o del 118 per “segnalare” la presenza del malcapitato.
Così altri sarebbero venuti, altri avrebbero provato a fasciarlo e a medicarlo, altri lo avrebbero caricato sui mezzi di emergenza, altri lo avrebbero portato dove era possibile trovare una sorta di soluzione. E noi, continuando la nostra strada, avremmo potuto dirci di aver fatto una buona azione, attivando chi per dovere o vocazione è preposto a certe cose.
E, svoltato l’angolo, ci saremmo dimenticati del malcapitato, presi dalle tante cose importanti per costruire il nostro futuro e un po’ più gonfi di autostima per come siamo capaci di affrontare le situazioni della vita.
Salvo poi essere pronti a rinfacciare, a chi abbiamo convocato, l’eventuale ritardo, o l’incompletezza del servizio, o la possibile distrazione di parte delle risorse o – come anche di recente è capitato in modo evidente intorno al tema del soccorso in mare – a imputare loro la malafede. La responsabilità, umana e cristiana, è rispondere “di persona”, direttamente, lasciandosi coinvolgere.
Certo servono punti di appoggio competenti e di alto profilo, ma questi non sono sostitutivi, non possono rispondere al posto nostro.
E senza la nostra risposta le tante cose messe in pista rischiano di essere semplici paraventi che, certo, fanno del bene, ma non producono cambiamento.
Le risposte che lasciano il tempo che trovano non sono risposte: sono un modo per eludere la questione.
Lo sappiamo bene, specie se guardiamo dall’interno la vita delle nostre famiglie, delle relazioni di coppia, del rapporto tra colleghi. Il Samaritano ha scelto di rispondere, accettandone tutte le conseguenze.
Che, tra l’altro, non poteva prevedere in anticipo.
Quanto tempo gli avrebbe preso quella sosta inaspettata? Quanta fatica fisica avrebbe dovuto fare? Quanti soldi gli sarebbero usciti dal portafoglio? Quanta sofferenza interiore avrebbe dovuto sostenere? E se il malcapitato non ce l’avesse fatta? Se fosse morto mentre lui lo sorreggeva? Come avrebbe convinto tutti della sua innocenza, visto che sarebbe stato trovato con le mani apparentemente nel sacco? E i suoi impegni a Gerico? Come avrebbe potuto giustificarsi sapendo che, a volte, un banale ritardo ti fa perdere il treno dei desideri a lungo atteso? La prossimità è anche sapere accettare il rischio di doversi modificare, e non poco o solo superficialmente.
“Farsi vicini” implica il nostro movimento, implica un investimento su di noi per raggiungere una meta altra, forse meno appariscente ma certamente più grande.
Investimento che diventa prioritario perché di suo porta a coinvolgere tutte le risorse disponibili, orientando scelte e vita in maniera forte.
Quell’orientamento ha un nome: “donarsi”.
Che è cosa ben diversa dalla “donazione”, perché non attiene al trasferimento di beni, ma alla prossimità dei cuori. La cultura di questi anni “liquidi” ha promosso l’enfasi del “dare”.
E anche i credenti sono spesso caduti nella trappola, arrivando a ritenere che la prossimità fosse espressa dal dare, dalla quantità, dal volume.
Ne abbiamo avuto eco chiara quando, a motivo della crisi economica, anche i nostri centri di servizio per i più poveri si sono trovati in ristrettezze rispetto alle quantità.
E ci siamo affannati per trovare modi concreti in grado di mantenere le quantità agli stessi livelli di intervento.
Cosa identica è capitata per molti enti pubblici che si sono affrettati, dando conto delle loro attività, a sottolineare come «nonostante la crisi non abbiamo diminuito i servizi offerti». Gran cosa, certo.
Ma non sta lì la qualità della prossimità.
Il nostro amico Samaritano non si preoccupa della quantità, ma del valore del suo stare a fianco del malcapitato.
Ovvero si preoccupa di “farsi dono” prima che di “fare dei doni”.
Se diventiamo dono, i nostri regali saranno accettati in maniera diversa, come strumenti di relazione e di verità.
Altrimenti, rischieranno di essere “utile beneficenza” che contribuisce ma non aiuta, perché mantiene la distanza tra i soggetti coinvolti e non genera cambiamento in nessuno dei due.
E sceglie il secondo. Con il primo si sarebbe occupato della questione facendo un intervento “tecnico”, mettendo in campo capacità ed esperienze, protocolli e procedure, abilità e innovazione.
Con il secondo, invece, è uscito dal tecnicismo entrando nella sfera della relazione con l’altro.
Qui al centro dell’azione non sta il cosa fare ma il modo di farsi presente, di stare con l’altro, di condividere una preoccupazione. Alcuni etimologisti antichi avevano proposto una spiegazione che, seppur un po’ fantasiosa, ha molta significatività.
Per essi il termine “cura” sarebbe la risultante della frase «qui cor urat», cioè ciò che riscalda e stimola il cuore consumandolo.
Prendersi cura è farsi prossimo in modo caldo, personale, sensibile, relazionale.
Non un mestiere, ma un atteggiamento.
L’evangelista Luca sembra indugiare su questo elemento, quasi declinando le varie facce che fanno del Samaritano un vero dono e non una donazione: vedere, farsi vicino, fasciare, purificare, sollevare, portare, affidare, preventivare il ritorno.
Proponendo, tra l’altro, una sorta di percorso del prendersi cura completo che potrebbe essere il canovaccio per esercitare anche noi, oggi, la responsabilità della risposta alla chiamata di Dio alla prossimità. Se non fai ciò che precede, non puoi andare avanti: se non vedi non ti farai mai vicino.
Se non ti sai fare vicino non potrai soccorrere.
Se non ti dai da fare per soccorrere non riuscirai a pulire e purificare l’altro da ciò che lo sporca.
Se non lo pulisci non riuscirai a sollevare la dignità del fratello e se non lo libererai non potrai prenderlo su di te come fratello anziché come fardello.
Se non lo tieni sulle tue spalle non ti accorgerai che da solo non ce la puoi fare e che ti serve l’attivazione di altri.
Se non attivi gli altri non riesci a dare continuità a una relazione che fa crescere tutti.
L’”attivazione comunitaria” è, tra tutti, l’elemento che presenta maggiori implicanze pastorali e, specie in questi tempi non facili, interpella in maniera diretta le nostre comunità cristiane.
Attivare significa dare il via e poi sostenere percorsi di risposta responsabile alla chiamata del Signore a una «fede che si rende operosa per mezzo della carità» [9].
[9] Gal 5,6
Specie nell’ambito della carità, dove permane il retrogusto individualistico dell’atto di prossimità così come lo avevamo interpretato in passato.
In qualche modo lo avevano relegato nel capitolo delle “virtù personali” o, al massimo, in quello del cristianesimo impegnato, coinvolgente solo alcune illuminate figure, parte della comunità.
La prossimità era diventata più un atteggiamento del singolo che un modo di essere della comunità, o ancora meglio, la caratterizzazione della comunità. Invece il farsi prossimo è anzitutto un movimento della comunità, che trascina con sé l’impegno di ogni singolo, ma che è testimonianza non tanto della bontà di una persona quanto della comunione nella comunità.
È l’abbraccio di un gruppo che incarna in sé gli atteggiamenti del Samaritano, trasformandoli in sapere collettivo, in azione corale, in attenzione totale.
Il primo e più grande soggetto di prossimità è la comunità cristiana.
A lei, espressione visibile del “corpo di Cristo”, è affidata la responsabilità di dire di sì al Signore servendo carità.
Non per nulla la cifra che, secondo l’evangelista Giovanni, caratterizza la testimonianza cristiana è: «da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» [10].
[10] Gv 13,35
Si tratta di un’ottica visuale capace di trasformare la loro vita e il loro modo di porsi nei confronti delle persone che le incontrano.
Non più un luogo in cui si esercitano “servizi”, ma un luogo in cui si vive fraternità.
Non più un insieme più o meno organico di attività tra loro vagamente collegate ed esercitate da tanti soggetti in sé stessi autonomi, ma una grande “presa in carico” della vita delle persone attraverso la quale trasmettere il calore della vicinanza di Dio. Attivare la comunità non è, dunque, un imperativo gestionale dovuto al semplice – seppur reale – fatto del decremento, in taluni ambienti anche significativo, di “addetti” a questo o a quel servizio.
È “imperativo ecclesiologico” dettato dalla visione di Chiesa che desideriamo costruire: una comunità della fraternità, un popolo di fratelli in cammino dietro al loro Signore verso la pienezza del Regno. I “malcapitati” dei giorni nostri non hanno bisogno di trovare qualche Samaritano sparso qua e là, ma comunità che si aprono e che includono nel loro cuore le persone.
Lo vediamo bene nelle questioni legate al sostegno alle persone costrette alla migrazione.
Non basta una rete efficiente di Ong: occorrono comunità che siano di sostegno concreto, che producano una cultura condivisa, che si aprano decidendo cosa lasciare di sé per arricchirsi di altro.
Non è più sufficiente avere questa o quella figura di sacerdote attento alla costruzione della fraternità, che metta in pista opere anche articolate di accoglienza o di sostegno, di inserimento sociale. Le opere devono diventare espressione di un sentire della comunità, capaci di andare anche oltre la presenza del “don” in quel contesto.
Altrimenti rischiamo di trasformare i “carismi” – doni dello Spirito per l’edificazione comune – in “pallini” come il nostro vernacolo collinare definisce le sensibilità un po’ esclusive della persona.
Il dono dello Spirito nella prima Pentecoste è sceso sulla Chiesa e su tutta la comunità radunata «nello stesso luogo» [11], non su questo o quell’apostolo singolarmente, sicché «tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue» [12].
[11] At 2,1
[12] At 2,4
Segno eloquente che la responsabilità di risposta al dono di Dio non sta solo sul singolo ma implica una attivazione comune.
Le stesse leggi statali si stanno muovendo su questo terreno, come quella che sta riorganizzando il cosiddetto Terzo settore.
Sempre più parliamo di coprogettazione tra pubblico e privato e tra i vari enti privati molto diversi tra loro. Nel nostro mondo ecclesiale lo abbiamo definito “unità pastorale”, proprio per chiarire come solo stando insieme riusciamo ad affrontare le sfide dell’oggi. A domande complesse non si può più rispondere con risposte semplificate o semplificatorie.
Insomma, ci sono diverse ragioni che ci spingono a considerare l’attivazione comunitaria un percorso pastorale utile per dare ali alla vita delle nostre parrocchie, in particolar modo alla loro prossimità con i poveri. Per raggiungere questo obiettivo occorre aver cura della solidarietà, intesa come virtù nell’enciclica Sollicitudo rei socialis.
È «la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti» (Srs 38).
Questo impegno è motivato dalla riscoperta del fondamento teologico della solidarietà che consiste nella «paternità comune di Dio», nella «fratellanza di tutti gli uomini in Cristo» e «nella presenza e nell’azione vivificante dello Spirito Santo» (Srs 40).
Una questione di stile
N on cadiamo, però, in errore pensando che questa prospettiva sia una novità.
La potremmo semplicemente definire come “riscoperta” di un germe seminato quasi cinquant’anni fa nel terreno delle Chiese in Italia.
Uno strumento pastorale che aveva proprio di mira questa attivazione della comunità verso un farsi prossima agli altri, partendo dai più poveri ed esclusi.
Fino ad arrivare a oggi quando tutti conoscono la Caritas, diventata una struttura assodata nelle nostre Chiese e in diverse nostre parrocchie. Però gli anni passati, seppur ancora pochi, hanno già contribuito a stendere un po’ di polvere proprio sull’elemento fondamentale, quello che il santo papa Paolo VI descrisse come «funzione prevalentemente pedagogica».
La pedagogia, ben lo sappiamo, è l’arte di attivare le persone verso il proprio cambiamento. Nel caso specifico sarebbe l’arte di attivare le comunità verso forme mature di prossimità, capaci di modificare anzitutto sé stesse, rendendole maggiormente luoghi di comunione e di condivisione.
Sta nella comunità soprattutto per suscitare in essa l’attenzione fraterna agli ultimi, con lo stile del Samaritano della parabola, e con l’impegno condiviso di tutti, ciascuno per quanto capace.
La Caritas vede come suoi destinatari prima che i poveri la comunità stessa.
È verso di essa che si deve muovere con azioni educative, con proposte operative, con stimoli di approfondimento.
La logica si potrebbe sintetizzare nello slogan “far fare” e curare che quel “fare” sia qualitativamente espressione dell’amore infinito del Padre, sull’esempio del buon Samaritano.
L’obiettivo cui siamo chiamati a tendere è davvero superare la delega, nei confronti della Caritas come di ogni altro gruppo o associazione di carità. Non che questo significhi la volontà di esautorare questi organismi del loro proprio, tantomeno entrare in una sorta di genericismo che assegnando tutto a tutti rischia che nessuno si metta all’opera. Significa semplicemente che dobbiamo arrivare a modificare la modalità di essere delle nostre comunità in modo che il “prendersi cura” sia azione condivisa e sentita propria da tutti.
Se così è, pare importante ridonare un ruolo propulsivo alle nostre Caritas, sia a livello diocesano sia a livello delle singole comunità.
Come il Samaritano è stato capace di “vedere” così le nostre comunità hanno bisogno di occhi capaci di vedere, al di là degli eventi, le necessità e i bisogni dei fratelli, specie di quelli caduti nelle mani della diffi coltà.
Caritas è strumento adatto se riesce a mettere al cuore del proprio agire la capacità di ascolto delle persone.
Senza ascolto non c’è relazione e senza relazione non c’è coinvolgimento.
Senza ascolto rischiamo di costruire su fondamenta fragili, ovvero sulle nostre impressioni e su quello che noi pensiamo essere buono o utile. Dobbiamo accettare la sfi da del venire interpellati dalle persone, dai loro bisogni, dai loro desideri, dalle loro prospettive.
Negli anni questo ascolto è passato soprattutto attraverso lo strumento del “centro di ascolto”.
Oggi va ancora fortemente sostenuto, anche se merita lo sforzo di rivederlo in base alle cambiate situazioni esistenziali delle persone.
Basti pensare alla situazione di “vergogna” che porta molte persone a non riuscire a palesarsi in una situazione quasi istituzionale come quella che le porta ad “andare a uno sportello”.
La Caritas potrebbe cimentarsi in questo esercizio allo scopo di essere meglio l’orecchio attento della comunità.
Orecchio che da solo rischia di essere troppo parziale.
È, dunque, necessario saper incrementare l’azione dell’”osserva-re” che è un guardare in profondità e a tutto tondo, tenendo conto non solo delle persone singole ma anche dei contesti in cui queste vivono e crescono. L’osservazione delle modifiche del territorio non sono cose da esperti che poco interessano l’azione pastorale.
Sono come le coordinate che ci permettono di leggere, qui e ora, la situazione di ogni persona, e di trasformare il nostro stare con esse in un’autentica testimonianza di prossimità.
Lo potremmo definire “ascolto in rete”, mediando il titolo di un percorso che coinvolge da un paio d’anni le diocesi della Granda proprio per qualificare, anche attraverso sistemi informatici, la capacità di accorgersi, e che va proprio nel senso di quanto detto.
Ascolto e osservazione sono il punto di partenza per una vera prossimità.
La Caritas è chiamata a trasformare quanto visto e ascoltato in “azione educativa” per la comunità.
Qui risiede una delle priorità pastorali che più ci devono stare a cuore come Chiesa locale.
Il principale compito che abbiamo è quello di accompagnare percorsi di crescita nella fede per singoli e gruppi.
E nel percorso l’elemento della prossimità è davvero centrale.
Ma come educare le nostre comunità a farsi prossime? Ecco alcune possibili suggestioni che dovrebbero diventare linee di azione delle Caritas ma anche della più globale azione educativa delle nostre parrocchie.
Serve una maggiore capacità comunicativa dei volti del disagio che si incontrano. Diamo per scontato che le nostre comunità sappiano qual è la reale situazione del territorio.
Non sempre è così.
Abbiamo bisogno di essere sollecitati ad “aprire gli occhi” per renderci conto delle cose.
Non possiamo non assumere uno sguardo di conoscenza proprio perché la parrocchia è quella realtà “presso le case”, come suggerisce l’etimologia stessa del termine.
Ci vogliono strumenti di rilettura critica che vada al di là delle facili simmetrie concettuali cui siamo abituati anche ai nostri giorni.
Rilettura che va fatta con le lenti del Vangelo, e non con quelle delle ideologie o degli opinion leader che vanno per la maggiore.
I temi che interpellano la prossimità hanno davvero bisogno di questa purificazione di interpretazione per evitare di cadere nei facili buonismi – che non costruiscono mai – o negli ancora più facili sentimenti di ostracismo che deumanizzano le persone. È facile notare come nelle nostre parrocchie non ci sia al momento dibattito costruttivo alla luce della Parola su temi forti quali quelli legati all’immigrazione, o all’accoglienza, o allo sviluppo delle persone e dei territori in un tempo di crisi economica. Preferiamo stare zitti o demandare questo dibattito ai talk show televisivi.
Invece la prossimità necessita di uno scambio di idee, che poi si trasformi in vera e propria cultura, proposta di visione e pensiero per far camminare la comunità alla sequela di Gesù attraverso i temi dell’oggi.
La parola di Dio ci attiva a tradurre subito in atteggiamenti concreti quanto essa ci ha fatto scoprire. Dunque, per educare alla prossimità, serve lo sforzo di proporre qualche “esercizio di prossimità” da perseguire come singoli, come famiglie, come gruppi e come comunità intera.
Passare all’azione dopo la spinta ricevuta dal “signor avvenimento” riletto alla luce del Vangelo è un passo decisivo per crescere nella sequela.
Per tutti, ma in modo particolare per i giovani.
Dobbiamo diventare capaci di organizzare occasioni di palestra concreta, in cui provare a spendersi – anche solo per piccoli periodi – nel vivere la prossimità, a tutti i livelli.
Per esempio, attraverso alcuni gruppi di catechesi, si propone ai ragazzi la visita a qualche servizio di carità. è molto bello, ma ancora insufficiente.
Quella carità vista va replicata, in modi e situazioni diverse, nella quotidianità della vita.
Altrimenti rischia di diventare l’abito bello della festa che metti e togli, ma che non modifica te stesso.
Anzi: quando sei ingrassato o dimagrito è l’abito a non andare più bene. Un’azione educativa che ha bisogno della regia della Caritas parrocchiale – o diocesana a livello più generale – perché non può essere lasciata all’immaginazione o alla fantasia.
Se processo deve diventare, ha bisogno di una sorta di programmazione “ex ante”, di un’intenzione educativa che va esplicitata e sempre tenuta presente in quello che facciamo, soprattutto se agiamo come Caritas.
Che ha nel suo carisma di fondazione proprio questa intenzione.
E se, talora, l’avesse un po’ smarrita è importante che la ritrovi e la rinnovi nelle forme.
Forse alle nostre strutture di carità serve la determinazione di volere intensamente percorrere la strada del “far fare” come priorità rispetto al continuare ad assumersi gli oneri.
Ecco un altro elemento da considerare trattando di azione educativa.
Talvolta sembra che il volontario di prossimità, per il fatto stesso che si mette a disposizione senza costrizione alcuna e senza pretendere alcunché di ritorno, sia “a posto”, adatto, adeguato.
Il metterci il cuore, la disponibilità generosa, la volontà di esser utile sono cose in sé stesse davvero grandi, che meritano il più profondo rispetto.
Ma non sono sufficienti. A queste caratteristiche di fondamento ne vanno aggiunte altre di perfezionamento.
Sono quelle legate alle varie forme di competenza che oggi servono per farsi strumenti di prossimità in maniera davvero efficace. Sono competenze umane, legate alla capacità di relazione.
Sono competenze spirituali, legate alla capacità di interiorizzazione della fede e di tutti i suoi risvolti.
Sono competenze operative, legate alle modalità di esercitare il servizio in maniera adeguata ed efficace.
Sono competenze di fraternità, legate alla capacità di creare comunione e di farsi vicini a tutti.
[13] 1Cor 13,1-13
In quelle righe la carità viene descritta da Paolo come il grande atto di relazione che manifesta lo stile stesso di Dio nel relazionarsi con noi.
Si parla, infatti, di magnanimità (cuore grande, tradotto mirabilmente da Benedetto XVI in “cuore che vede” [14] 14 ), di benevolenza (volere il bene dell’altro non desiderare la sua trasformazione a nostra immagine e somiglianza), di non invidia, di umiltà, di rispetto, di giustizia, di verità. E, come dice nello stesso numero citato la Deus caritas est, è importante che gli operatori e i volontari si applichino alla “formazione del cuore” che dà completezza all’immagine generale di chi cerca di esprimere prossimità verso i fratelli.
[14] «Il programma del cristiano - Il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù - è “un cuore che vede”» (Benedetto XVI, Deus caritas est, 31).
Anche nella nostra Chiesa questo tema risulta essere di straordinaria attualità e importanza: ne va della qualità della testimonianza di Vangelo che possiamo rendere agli uomini e alle donne del nostro tempo.
[15] Concilio ecumenico Vaticano II, Apostolicam actuositatem, decreto sull’apostolato dei laici, n. 8.
Siamo chiamati a rendere trasparente il servizio di vicinanza agli ultimi e non tanto perché utilizziamo sempre più fondi economici provenienti dalla fiscalità generale e dall’”otto per mille”, soldi che la gente affida alla Chiesa perché li faccia fruttare al meglio. La trasparenza è esigita dalla carità stessa che non deve mai avere secondi fini, neanche quello della conversione religiosa dalla loro alla nostra parte. Quanta attenzione poniamo nel verificare la nostra intenzione nel fare azioni di prossimità? Quanto siamo disposti a uscire dalle secche del “sentirsi buoni” o del poter esercitare – magari solo nel profondo del nostro cuore – un certo tipo di potere legato al tanto bene che siamo in grado di fare?
Siamo prossimi perché questo è il modo genuino di stare tra noi, secondo le indicazioni del Vangelo. L’azione di prossimità deve avere cura della libertà e della dignità delle persone.
Non possiamo liberare i poveri dalle catene dell’indigenza per poi chiuderli nei ceppi della dipendenza dal nostro aiuto. L’azione di carità deve essere liberatoria, deve riuscire a mettere in pista le capacità residue delle persone, deve rimettere in piedi e non portare in braccio. Una carità che umilia non è quella che il Signore ci propone.
Dignità significa lavorare per offrire opportunità di crescita, di sviluppo, di assunzione della responsabilità sulla propria esistenza.
In questo la beneficenza passiva non aiuta, ma rischia di creare immobilismo nel povero e assuefazione all’esteriorità in chi pensa di donare in tal modo. Il testo del Concilio usa l’avverbio “estremamente” per indicare la grande importanza di questa ottica. Dobbiamo avere il coraggio di abbandonare le azioni di tipo assistenzialistico, per provare tutti insieme a escogitare azioni di “capacitazione” delle persone e dei contesti territoriali in cui queste vivono.
Cosa molto più faticosa, ma certamente più in linea con lo stile del Samaritano.
Cosa che si aggancia anche all’impegno ad agire sulle cause e non solo sugli effetti.
Come ritiene il magistero della Chiesa, per cui la politica è la “forma più alta di carità” [16]proprio perché agente sulle cause che generano povertà ed esclusione e non solo sulle conseguenze.
[16] L’idea è spesso attribuita a san Paolo VI: Octogesima adveniens n° 64
Pio XI discorso ai giovani della Fuci, 1927
Forse ci siamo accontentati eccessivamente, negli anni passati di frequentare quello che abbiamo spesso definito “mondo del prepolitico”, arrivando a dare un’immagine di Chiesa quasi come di succursale del servizio sociale.
Molto impegnata nel fare, tirata in ballo quasi esclusivamente nelle emergenze, costretta a farsi dettare le agende dai bisogni e non dalle opportunità. Agire sulle cause è capacità di discernimento, sguardo aperto verso il futuro, volontà di portare un contributo decisivo nella costruzione del bene comune dei nostri territori.
Il nuovo welfare, come viene definito oggi lo sforzo collettivo e comune di mutazione delle modalità di approccio ai temi del benessere sociale, non può che partire dalla seria considerazione delle cause e da strategie locali e globali per rimuoverle o trasformarle. In questo pare essere sempre più urgente la funzione di advocacy, ovvero di posizione seria delle questioni a partire da come le vedono e le vivono i più poveri.
Compito che le nostre comunità non dovrebbero ritenere secondario o addirittura esterno alla loro missione nel mondo: si tratta di gridare la verità dai tetti [17], mai contro qualcuno ma sempre per rendere più bella la vita dei singoli e delle comunità.
[17] Mt 10,27
Sembrerebbe che il Samaritano non abbia fatto nulla di questo, limitandosi in silenzio e nel nascondimento a fasciare le ferite del malcapitato. Ma se la cosa è fatta sulla pubblica via, se viene coinvolto un oste ignaro, se c’è la prospettiva di ripassare al ritorno, ci sono già molti elementi che ci instradano a comprendere questa moderna frontiera della carità come strategica per il futuro anche delle nostre parrocchie.
E, in esse, soprattutto delle nostre Caritas parrocchiali. E proprio all’advocacy si unisce l’altro suggerimento del Concilio, divenuto così famoso che non di rado capita di sentirlo citare – magari con scarsa precisione – soprattutto in contesti diversi da quello ecclesiale: «Siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia, perché non avvenga che offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia».
Tema attualissimo e delicatissimo, che il Magistero pontificio ha ripreso in più contesti. Il rapporto tra carità e giustizia è davvero un caposaldo che deve condurre l’azione caritativa nelle comunità cristiane. Senza giustizia si rischia di trasformare la carità da prossimità che sviluppa a palliativo che, forse, riesce a ridurre i sintomi, ma che potrebbe anche divenire occasione di mancata liberazione.
Le nostre Caritas devono sapere promuovere in ogni modo la giustizia da parte di tutti, cristiani in primis.
Solo dopo aver assicurato la giustizia possiamo innestare nella vita delle persone la relazione liberante e calda della fraternità e della prossimità vera. Non è questione di decidere meglio chi fa e cosa fa: sarebbe solo una questione organizzativa.
Non significa neppure scaricare sulle spalle delle istituzioni – pubbliche prevalentemente – pesi e compiti difficili e onerosi.
Significa realizzare quei principi già citati che danno spessore al nostro essere discepoli del Maestro.
Collaborazione sempre, coinvolgimento con convinzione, condivisione dei carichi senza risparmi.
Ma mai sostituzione indebita e indefinita, mai deresponsabilizzazione degli elementi umani e giuridici che costituiscono l’essenza del nostro essere persone e cittadini. “Costruire insieme” potrebbe essere il motto cui ispirarsi, non “fare al posto di” e soprattutto non eliminare i doveri di giustizia.
A conclusione di queste riflessioni sorge quasi di conseguenza la necessità di provare ad attivare un percorso che sappia ulteriormente approfondire il ruolo della Caritas all’interno della Chiesa diocesana e delle singole comunità parrocchiali.
Percorso che riguarda lo strumento ma anche tutto il corpo ecclesiale.
Percorso per rinsaldare la prossimità della nostra Chiesa ai più poveri.
Pertanto questa mia lettera pastorale sul tema della carità, che ritengo vitale per la nostra Chiesa, sarà oggetto di riflessione e confronto in tutte le realtà della nostra diocesi, a partire dalla Caritas diocesana, che da decenni svolge un ruolo e un compito in modo encomiabile a servizio dei poveri, all’Ufficio per la pastorale dei migranti (anch’esso ha saputo e sa rispondere con impegno e competenza all’accoglienza e all’integrazione di tanti che chiedono di essere accolti), alle Caritas vicariali e di unità pastorali presenti sul nostro territorio.
Allo stesso modo il Consiglio presbiterale e il Consiglio pastorale diocesani dovranno esprimersi in merito ai temi sollevati in questo testo. Rimangono aperti alcuni filoni di riflessione legati alla galassia di associazioni, cooperative e gruppi di ogni genere che operano in questo campo, soprattutto quelli ecclesiali, per i quali la Caritas diocesana sempre più dovrà diventare punto di riferimento e di coordinamento.
Così pure rimane aperto il filone di riflessione e coinvolgimento dei giovani, i quali devono divenire testimoni credibili della carità nel mondo in cui vivono. Al termine di questo percorso diocesano intendo riformare la Caritas diocesana e la Pastorale dei migranti, per un nuovo slancio e facendo tesoro di tutta l’esperienza acquisita in molti anni di attività pastorale e di conseguenza dare alcune linee concrete di impostazione ai suddetti ambiti pastorali.
Vorrei anteporre alle questioni organizzative, che sono necessarie, una presa di coscienza collettiva e non solo per addetti ai lavori, che ci aiuti a comprendere a fondo la virtù della carità, a partire dall’icona biblica del buon Samaritano e sentendo rivolto a ciascuno personalmente il comando di Gesù: «Va’ e anche tu fa’ così».
In questo nuovo cammino verso la santità, «possiamo dire che siamo circondati, condotti e guidati dagli amici di Dio.
Non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo.
La schiera dei santi di Dio mi protegge, mi sostiene e mi porta» [18].
Ci sia d’aiuto, pertanto, il santo martire Lorenzo, campione di carità cristiana, patrono della nostra città e diocesi.
[18] Benedetto XVI, Omelia per il solenne inizio del ministero petrino (24 aprile 2005), citato da Francesco, Gaudete et exsultate, n. 4